dalla prefazione di Vincenzo Guarracino:
Una premessa necessaria, fondamentale, dinanzi a un testo che, per come si presenta, tra titolo cioè ed esergo (“Le poesie, sono altresì dei doni / doni per chi sta all’erta. Doni che implicano destino”, di Paul Celan), vuole subito indirizzare il lettore verso una zona ben precisa dell’agire umano all’insegna di un gesto, di uno scambio, in cui si condensano intenzioni e parole più o meno esplicite.
Il “dono”, che già a livello etimologico, indica l’atto istituzionale di un patto attraverso un “passaggio”, un affidamento, collegato alle parole che l’accompagnano, all’inflessione della voce e del gesto con cui viene effettuato.
(…)
è in questo cortocircuito, tra “pratica igienica” e il “destino” di cui parlava Celan (non a caso un concetto questo che compare anche nell’ultimo testo della silloge, “Le parole sognano / orizzonti nudi / destini nuovi / da abbracciare”), che la scrittura per Stoccoro trova un impulso e una giustificazione, a partire da un omphalos emozionale del proprio Immaginario intorno a cui si incardinano memorie e progetti, sull’onda di quello che Maria Zambrano aveva definito una “nostalgia di un tempo anteriore a ogni tempo vissuto”, in cui l’io sperimenta una scoperta (di sé e del mondo), che lo lascia in preda uno sbalordimento essenziale, sull’”orizzonte nudo” della coscienza dei propri limiti, di fronte a “ciò che appare” e al tempo stesso immobile e incapace, se non di dirla, di muoversi come in un “sogno”, proteso verso il “nuovo” di un’emozione impensata (e interminabile).
È questo che Giancarlo mette in scena, come esperienza di un’attrazione e al tempo stesso di un distanziamento, già nel primo testo, Rêverie (“La prima prende la forma di una culla / la seconda mette il dito in bocca / la terza parola ha curve generose / fa la mamma”), col suo chiamare in causa un’immagine fondante (la “culla”), come una sorta di oggetto antico del desiderio, allestendo un teatrino di uno stato anteriore alla coscienza, in un processo di evidente onirizzazione della realtà. (…)
dalla postfazione di Enea Roversi:
Chi conosce la poesia di Giancarlo Stoccoro sa che si tratta di una scrittura estremamente rigorosa, in cui ogni singolo verso e ogni singola parola sono trascritti sulla pagina con metodica precisione, in cui nulla è lasciato al caso.
È plausibile pensare che il rigore e la precisione derivino, almeno in parte, dalla formazione e dall’esperienza professionale di Stoccoro, che nella vita di tutti i giorni è uno stimato psichiatra e psicoterapeuta.
Ma il rigore e la precisione in poesia non bastano di certo: rischiano di essere nulla di più che uno sterile esercizio di stile, se non sono supportati da quella necessaria sensibilità che Stoccoro dimostra indubbiamente di possedere.
Ed ecco quindi che, leggendolo, s’instaura da subito, tra poeta e lettore, una sorta di empatia (termine che ha un’importanza basilare nell’attività professionale di Stoccoro, come egli stesso ben saprà): chi legge viene messo a proprio agio fin dai primi versi ed entra nel mondo del poeta, stabilendo con esso un ideale dialogo che fluisce in maniera pacata, senza grida confuse né frasi fuori posto.
In una delle sue precedenti raccolte, La dimora dello sguardo (Fara Editore, 2018) Stoccoro ha inserito in esergo una frase di Giorgio Caproni che suona quasi come un manifesto della propria poetica: “Scrivere è una pratica igienica che mi dà salute.”.
La scrittura viene dunque vista (e altresì vissuta, praticata) come una necessità: c’è una stretta correlazione tra essere e scrivere, tra corpo e psiche, tra il sentirsi e il sentire, tra osservazione e percezione.
È dallo sguardo che parte e si sviluppa la scrittura di Stoccoro: le sue raccolte poetiche sono caratterizzate da una particolare attenzione verso la natura, verso la dimensione intima del silenzio, verso i momenti fatti di attesa.
Rêverie
La prima prende la forma di una culla
la seconda mette il dito in bocca
la terza parola ha curve generose
fa la mamma
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Teniamo parole in grembo
e guardiamo l’abisso
Radichiamo assenze
quando l’orizzonte
fa grandi i passi
In alto
già impazzano le stelle
hanno preso tutto lo spazio
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Ci affidiamo al corpo
per ammirare un paesaggio
camminare scalzi sul pianerottolo
Mentre passano i volti
le intime distanze
seguono la luce
e tu dispensi carezze
agli sconosciuti
ritrovi la forma acerba
del dono
_________
(A Pierluigi Cappello)
Eri atteso in autunno
quando le foglie
fanno il letto più morbido
Tre alberi e un quarto ferito
battono in ritirata
sul sentiero che una volta
attraversava il bosco
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I sogni migrano altrove
e tu cuci asole d’alba
trasformi la notte
in un laboratorio di luce
Forme del dono, Bertoni editore, dicembre 2021