Le sensazioni e le emozioni inconsce sono quotidiane nella vita, noi non ce ne accorgiamo ma dentro di noi si accumula una sapienza che non abbiamo col pensiero. Dante, nel XXIV canto del Paradiso a Pietro che gli chiede <<qual è la tua fede?>>, risponde con le lettere di San Paolo ridotte a due versi :<<fede sostanza di cose sperate ed argomento delle non parventi>>. <<Ma come fai a dire sostanza e poi argomento? Sono in contraddizione>> gli dice Pietro e Dante: <<No, non sono in contraddizione, le cose che vediamo e tocchiamo non possiamo metterle in dubbio, ma delle altre non possiamo avere certezza e allora cominciamo a discuterne, col pensiero cominciamo ad analizzarle>>. Secondo me fede è certezza di esperienze vissute nella loro essenza, che il nostro pensiero non riesce ancora a comprendere. Questo è molto più preciso e vero, perché non conosciamo l’essenza delle cose tutte, figurarsi dell’universo. Non conosciamo quasi niente del mondo, solo che l’uomo ha la pretesa di trarne sempre una conseguenza di ordine logico da cui parte quel poco che conosce per tracciarne delle ideologie (comunismo, Dio non esiste o viceversa una serie di bugie attorno alla divinità), dimenticando di essere in una condizione tale da avere col pensiero una conoscenza tanto superficiale. Lo dice Einstein: <<Non si perviene alle leggi universali per via di logica ma per intuizione e l’intuizione non la facciamo noi ma è possibile in rapporto simpatetico con l’esperienza>>, cioè amoroso con l’esperienza. Allora tu ami qualcosa (fai il contadino, fai il falegname, fai qualsiasi cosa ami fare) e in questo modo conosci te stesso insieme alla cosa su cui stai lavorando.
Nel Vecchio Testamento, proprio al momento della creazione, il primo atto fu la luce e Dio vide che era buona. Secondo atto fu la separazione dello spirito dallo spirito, lo spirito che rimane in Dio e quello atto ad avere rapporto con la materia. E quindi di Dio non possiamo dire niente, solo cose che possono andare bene per la società ma non cose vere. Dio non ha mai rapporto con la materia, mentre lo Spirito Santo sì. A me piacciono i pellerossa perché lo chiamano il Grande Spirito. Ci sono esperienze che l’uomo fa e che non sono comprensibili dalla mente. Mosè, dopo che gli sono stati dettati i Comandamenti, che sono provvedimenti di ordine sociale e non hanno niente a che vedere con il peccato e il male, dice alla voce: <<Ma tu chi sei?>>. E la voce risponde: << Io sono colui che sono>>. In realtà la risposta è RA- AR, cioè essere- non essere. Questo è interessante: gli atei sono nel non essere ma quelli che hanno una coscienza di se stessi, seppur relativa ma profonda, non possono fare a meno di ammettere che ci sia qualcosa di inconoscibile. Conosci te stesso, nosce te ipsum è fondamentale, questo è il compito.
1
Quest’anno (2016) ricorrono i 150 anni dalla nascita dell’”analista selvaggio”, la cui celebre frase <<non è vero che noi viviamo, in verità noi in gran parte veniamo vissuti>> ha trovato eco nelle testimonianze di molti autori sulla nascita delle loro opere. Per citarne solo alcuni, Jean Cocteau affermava << noi non scriviamo, siamo scritti>>; Edoardo Sanguineti (che si riconosceva “groddeckiano selvaggio”): <<si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere>>. Edmond Jabès, forse il più dissacrante di tutti: << ho scritto un solo libro ed era già scritto>>. Si riconosce anche Lei portavoce dell’Es, cioè di una forza misteriosa che ci trascende?
Sì, io sono convinto che così sia. Anch’io dico sempre di aver scritto un solo libro e che era già scritto. Questa forza è così evidente quando noi pensiamo al sogno. Quando andiamo a letto la sera, non è che ci diciamo <<adesso sognerò il mare perché amo il mare, la montagna perché amo la montagna o una bella donna>>. Sogniamo quello che sogniamo.
Per fortuna riusciamo a racimolare col pensiero qualcosa sulla vita, sulla natura, sul mondo, sull’uomo. Tutti i poeti, gli scrittori e i filosofi, che hanno avuto l’attenzione e la pazienza di stare ad ascoltare se stessi e il mondo, dicono che quello che hanno scritto, non l’hanno scritto loro. Anch’io, quando rileggo le mie poesie dico: <<ma chi le ha scritte?>>. Certo che serve la cultura, la cultura serve per rivedere le cose che si dicono. Non siamo così straordinari da ridire esattamente quello che ci viene detto dentro di noi e facciamo degli errori. Per questo abbiamo in mente le rime e tutte quelle regolette. Ciò che è davvero importante è l’ascolto di se stessi, bisogna essere soli. Ho scritto Strolegh tra la fine di giugno e la seconda metà di luglio perché ero da solo in casa. Giravo per le stanze e recitavo quello che sentivo, quello che veniva fuori da me. Quando la mia mente non ce la faceva più a ricordare, mi sedevo e scrivevo.
Dopo aver scritto, devo fare un gran lavoro a leggere e rileggere: la parola è suono. Da bambini si faceva un gioco ormai dimenticato: ci mettevamo in cerchio e contavamo. Il bambino selezionato pronunciava una parola, per esempio “cassapanca”; tutti in coro ripetevamo cassapanca, cassapanca, cassapanca…, fino a quando uno dei bambini diceva: <<non so più cosa sia, non sento, non vedo più quella cosa, sento “csspa”>>. Era la consonante che risuonava dentro, non la vocale. Poi si sceglieva un’altra parola e si continuava a giocare.
2)
Nel lasciarsi andare all’ascolto delle proprie intime profondità <<si spalanca un abisso che può travolgere>> (Andrea Zanzotto). Poesia, questione d’abisso, come diceva Paul Celan? Se è vero che la poesia ha una base necessaria e autobiografica, legata forse a un trauma originario dell’infanzia (secondo Jean Paul Weber, ripreso da E. Sanguineti ne “Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo”) e sicuramente agli eventi significativi della nostra vita, ha per Lei anche una valenza salvifica?
Non solo la poesia. Benedetto Croce, nel suo diario pubblicato postumo dalla figlia, scrive una grande cosa: <<Nel filosofo accade il medesimo che nel poeta. Non è lui che filosofa ma Dio o la natura, anzi è la cosa che pensa se stessa in lui>>. Straordinario! Non so se la poesia sia salvifica ma è stata l’essenza della mia vita. Adesso mi è venuta questa malattia agli occhi, ho fatto un errore gravissimo: compiuti gli ottant’anni, ricevuto l’ennesimo premio, ho sentito gente che diceva di aver letto le mie poesie e mi incensava ma poi ho scoperto che non era vero. Io mi sono detto: <<ho scritto tanto, ho detto tanto e poi mi trovo che le persone non fanno un minimo di riflessione su se stessi>> -io ho scritto sopratutto per gli altri, perché capissero qualcosa- <<basta, non scrivo più!>>. Sarà un caso ma subito dopo mi è venuta la maculopatia. Questo mi ha fatto capire che non si finisce mai di comprendere. Uno può aver letto tantissimo, come ho fatto io, ma essere presuntuoso. La presunzione umana è terribile! Ha ragione ancora Einstein che, dopo aver saputo del lancio della bomba atomica, aveva detto: << Se nascessi un’altra volta, farei l’artigiano piuttosto che vivere questa disperazione>>. L’energia dell’atomo da lui scoperta era stata immediatamente usata dall’uomo per scopi distruttivi. È presunzione umana anche aver detto io ho fatto troppo. Nella vita non si fa mai abbastanza! Non s’impara mai abbastanza!
3)
<<Nei sogni siamo veri poeti>> ( Ralph Waldo Emerson) ovvero <<il poeta lavora >> quando dorme (Saint- Pol – Roux). Per lo psichiatra esistenzialista e fenomenologo Ludwig Binswanger il sogno è una forma specifica di esperienza (Sogno ed esistenza), per il regista russo Andrej Tarkovskij la poesia è << una sensazione del Mondo, un tipo speciale di rapporto con la realtà>>. Quale relazione c’è per Lei tra sogno e poesia?
Il sogno è l’espressione del nostro inconscio e la poesia lo stesso. Infatti per un periodo della mia vita ho scritto tre quaderni di sogni che trascrivevo la mattina appena sveglio. Se non si scrivono subito, si dimenticano. Questo la dice lunga su come l’attenzione dell’uomo non debba mai venir meno. Se non li scrivo, me li ricordo ma non riesco più ad afferrare alcuni particolari importanti. Ricordo per esempio di aver sognato di essere uscito volando dalla finestra di un castello e di essere finito lontano su un albero di ciliegio. Dall’albero vedevo i contadini che stavano facendo la vendemmia dell’uva. Era una festa bellissima che mi piaceva. Poi, però, come ho deciso di scendere e di andare a parlare con i contadini non l’ho scritto e quindi non ce l’ho bene in mente. Questo vale anche per la poesia, non bisogna fare come Zanzotto che dice:<<Il primo verso viene da sé ma poi io mi ritraggo, perché ho paura di essere travolto>>. Non bisogna ritrarsi, anzi, è necessario abbandonarsi ancora di più a se stessi.
4)
Con Freud i sogni sono diventati la via regia dell’inconscio e vanno contestualizzati attraverso l’interpretazione, per non restare lettere mai aperte come già si leggeva nel Talmud. Recentemente alcuni psicoanalisti ritengono più raccomandabile non solo e non tanto interpretare, cioè rendere conscio ciò che è inconscio, quanto giocare col sogno, sognare sul sogno e col sogno, rispettare l’illusione o per ampi tratti favorirla. Riguardo la poesia Elias Canetti, in “Un regno di matite”, ha scritto: << Giochiamo con i pensieri, per evitare che diventino una catena>> e ha ammonito: <<Triste interpretazione! Morte delle poesie, che si spengono per astenia quando vien loro tolto tutto quel che non contengono>>. Lei è d’accordo o ritiene chel’Es venuto alla luce nella poesia necessiti ancora di essere decifrato? È fedele all’Es che erompe nella scrittura o lo tradisce traducendolo? O forse è applicabile alla Sua scrittura la parola tedesca ” Umdichtung” ( che significa una poesia elaborata a partire da un’altra) ?
Tradire traducendo è proprio interessante. Abbiamo già detto che la parola è suono. Se io dico:<<di Dio sono matto, si strappa la coscienza, vado in giro, lo penso, me lo rimugino e cammino… E più lo penso e più gli sono lontano. Dio è scherzoso, è come fa la luna che i miei pensieri sono nuvole, e lui si nasconde. Così io mi perdo via, parlo con gli uomini, e matta è la luna chiara, luna che si rifa sempre luna, luna luneggiante…>> come succede sempre d’estate. Se lo dico in milanese, luna lünenta è una cosa ben diversa,c’è la musicalità: <<De Diu sun matt, se streppa la cuscienza./ Vu ‘n gir, el pensi, me ‘l remèni, e vu…/ E püssè ‘l pensi, e pü ghe sun luntan./Diu l’è schersûs… L’è cume fa la lüna,/ ch’i mè penser în nüver, e lü se scund./Inscì, me tundi via, parli cuj òmm,/ e matta l’è la lüna, ciara lünenta,/cun la sua lüs che slisa ne la nott>>. È diverso, tutto diverso,nell’ascoltarla si muove dentro qualcosa attraverso i suoni, attraverso la sequenza dei suoni. Non sappiamo cosa sia, ma c’è, qualcosa di indefinibile. Poi c’è la mia emozione nel dirla. La traduzione, invece, per quanto voglia esserle vicina, non è mai la poesia, cioè la versificazione musicale di quello che si è sentito, la musica delle parole. Come Mozart, come Bach ci trascinano nostro malgrado, ci emozionano profondamente e dalla tristezza, che avevamo, piangiamo lacrime di gioia.
Non si può tradurre, possiamo mettere delle didascalie, le chiamo così, come per le foto; per esempio: Piazza del Duomo alle ore 15 del giorno tale a Milano. La pretesa di esprimere la poesia nella traduzione… bisogna scrivere un’altra poesia!
5)
Il linguaggio è l’archivio della storia, la tomba delle muse: << poesia fossile>>. <<Un tempo ogni parola era una poesia>>, << un simbolo felice>>(Emerson). <<Gli dei concedono la grazia di un verso, ma poi tocca a noi produrre il secondo >> (Paul Valéry). Oppure:<<Se la poesia non viene naturalmente come le foglie vengono ad un albero, è meglio che non venga per niente>> (John Keats). Come nasce la sua poesia e come si sviluppa? Quali condizioni la favoriscono?
Intanto la solitudine è importantissima: non bisogna essere distratti dai famigliari, che sia la madre o la moglie. Ogni volta che ho scritto le mie poesie, che sia Strolegh o L’Angel, in meno di un mese, ero da solo. Non so come nasca la poesia. Ci sono tutti i precedenti, da bambino facevo teatro, poi ho iniziato la narrativa e successivamente ripreso il teatro; ho scritto racconti, un romanzo a 21 anni, pubblicato proprio adesso. È stata tutta preparazione, preparazione inconscia. Non posso dire con precisione cosa mi abbia spinto alla poesia. Avevo già detto che dopo aver letto il Belli ho voluto scrivere una poesia anch’io. Adesso che ci penso bene, anche la lettura di Shakespeare, dei filosofi come Socrate, Kant, Hegel, Croce… Con questo non voglio dire che nasca da suggestioni intertestuali, ma quanto sia importante la preparazione culturale. Anche un falegname deve conoscere bene il legno per lavorarlo. La conoscenza delle parole, gli studi che ho fatto concorrono al fare della poesia.
È stato incidentale che io, leggendo il Belli, abbia iniziato a scrivere poesie perché, in realtà, ero maturato per abbandonarmi finalmente al mio inconscio.
6)
<<Ogni pensiero inizia con una poesia>> dice Alain ed è noto che nella storia dell’umanità la poesia ha preceduto la prosa. La poesia ricorda l’infanzia dell’uomo e i poeti sono dei grandi bambini, degli <<eterni figli>> (tema ripreso anche da Sanguineti). Per altri versi, la poesia afferirebbe al codice materno mentre la prosa a quello paterno: la prima, secondo lo psicoanalista Christopher Bollas (ne: “La mente orientale”) è più legata alla presenza di pensieri –madre, <<strutture (che) mantengono il tipo di comunicazione che deriva dal modo di essere della madre col suo bambino>> con forma sintattica più semplice e più vicina al linguaggio orientale, la seconda al linguaggio occidentale e paterno, basato su espressioni verbali più articolate e complesse che ci lasciano meno liberi, sacrificando l’invenzione a favore dell’argomentazione. Due mondi alternativi, la prosa e la poesia, o due parti che possono entrare in rapporto e/o in successione? Qual è la Sua esperienza al riguardo?
Non ho mai fatto questo confronto tra poesia e prosa perché, secondo me, dipende da come si scrive. Dostoevskij, per esempio, per me è un grande, non è un poeta ma è come se lo fosse. Dice delle cose profonde e straordinarie. È stato il mio primo maestro, anche se avevo già letto da bambino l’Ariosto e Omero. Quello che mi ha colpito da adolescente è il modo in cui Dostoevskij racconta spontaneamente quello che ha vissuto: dice tutto, non si ritrae davanti a niente di ciò che ha dentro. Correggeva tantissimo ma non poteva farlo a lungo perché gli editori esigevano subito le bozze per pubblicarle. Era un narratore ma scriveva proprio come i poeti. Tolstoj, invece, era in condizioni economiche e sociali ben diverse: aveva giovani al seguito che lo aiutavano nelle ricerche in biblioteca, aveva accesso ad archivi per altri irraggiungibili, poteva vedere e rivedere i suoi scritti. Due modalità di lavoro ben differenti, malgrado abbia amato anche Tolstoj.
La differenza sostanziale tra prosa e poesia è che quest’ultima è più attenta alla musicalità della parola. La poesia è una musica del vocabolario che vien detta con l’emozione e l’adesione al suono della parola che non c’è nella prosa. La prosa e il teatro, con cui sono partito, mi sono serviti molto nella vita. Anche quando leggevo la prosa, aderivo con tutto me stesso a ciò che leggevo. Poi ho scelto la poesia proprio per la musica, la sonorità della parola che mi hanno sempre colpito. Il prosatore è più attento al significato, c’è una logica costruttiva nel suo operare, non è interessato alla musicalità o meno della proposizione utilizzata: usa una parola per dire quella ben determinata cosa. Non è un giudizio di valore: i prosatori possono essere dei grandi personaggi. Ci può essere un abbandono anche nell’andamento prosaico; l’atteggiamento del poeta è, però, diverso: una parola tira l’altra, è il suono della parola che conduce, non è più la necessità di raccontare quella cosa, arrivano altre immagini, altri mondi, questa esperienza fa emergere altre cose. Il risultato della poesia è diverso da quello che avevi in mente all’inizio. Nel racconto, viceversa, ci sono tutte le cose che hai in testa come ricordo.
Non so dire perché ho scelto la poesia, anzi, non l’ho scelta, sono stato scelto dalla poesia. Ho scritto, non solo per il suono, nel dialetto degli operai che ho conosciuto e che ho ascoltato a lungo. Mi hanno detto cose eccezionali che poi ho letto nei grandi autori, poeti e filosofi.
7)
Il momento della scrittura o ” l’attimo della parola” accade, per Peter Handke, in presa diretta con l’esperienza; per dirla con Borges (in: “L’invenzione della poesia”), <<la poesia è sempre in agguato dietro l’angolo>>. E per lei? Ha anche Lei un taccuino che l’accompagna in ogni luogo?
Sì, sì. Avevo quaderni e diari, ne ho 105 ma ne avrei di più se non ne avessi persi alcuni per strada mentre andavo a lavorare in bicicletta allo scalo merci. Ho iniziato a 16 anni e anche prima. Un ragazzo ha fatto la tesi di laurea e il dottorato sui miei quaderni, tralasciando gli scritti troppo intimi sulla mia vita. Scrivevo di tutto: i sogni, le piccole cose,la descrizione di una passeggiata… Scrivevo in tram dove ho anche studiato Kant quando andavo alla Mondadori e, a volte, mi dimenticavo di scendere o scendevo alla fermata prima o a quella dopo. Per me il diario è sempre stato essenziale, come i sogni che poi si dimenticano. Nella vita non si riesce però ad acquisire tutto e le cose si dimenticano lo stesso. Tenere il diario ci consente di rimanere in relazione con noi stessi.
8)
Il momento della scrittura o ” l’attimo della parola” accade, per Peter Handke, in presa diretta con l’esperienza; per dirla con Borges (in: “L’invenzione della poesia”), <<la poesia è sempre in agguato dietro l’angolo>>. E per lei? Ha anche Lei un taccuino che l’accompagna in ogni luogo?
Non saprei, ce ne sarebbero tanti ma non mi vengono in mente. C’è sempre qualcosa da affrontare. Anche quando si corregge la poesia, non si finirebbe mai. Anche quando sento le mie poesie registrate, già pubblicate, penso subito che dovrei riprenderle, rivederle, modificarle in qualche punto e poi in un altro, senza fine. Non siamo così coscienti da cogliere tutto quando le recepiamo.
(tratto da “Poeti e prosatori alla corte dell’Es”, Animamundi editore 2018.