Elogio del paesaggio di pianura
La pianura lombarda tra il basso corso dell’Adda, l’Oglio e il Po ci offre un paesaggio particolare, sottratto alla comune definizione della bellezza naturale, piatto, apparentemente monotono. Esso appare quanto mai lontano da quelle accidentate drammaticità tanto amate dalle guide turistiche.
Il paesaggio di pianura non si impone, ci accompagna, come un sommesso bordone che lascia emergere l’assolo dei nostri pensieri. Nelle sue infinite, irrilevanti variazioni di pochi elementi ripetuti e ricomposti in una continuità discreta di combinazioni, affina la nostra sensibilità, ci costringe all’umile esercizio di conoscenza del particolare, ci conduce a godere dell’unità del tutto nella mutevole sequenza degli spazi, nella serie ininterrotta delle percezioni.
Il paesaggio di pianura ci offre la sensazione liberatoria di una potenziale ubiquità. Ci invita a percorrerlo, nella svagata ricerca di un centro inesistente, ci porta alla conclusiva constatazione della equipotenzialità dei luoghi e quindi esalta il piacere della percorrenza superando l’ansia dell’arrivo. Esso sembra inverare la parafrasi della rilevanza del tempo presente sopra ogni angosciante attesa di futuro.
Un paesaggio che non interrompe i nostri pensieri e non mortifica i nostri sogni con eclatanti apparizioni. Per chi ne sa cogliere il messaggio, ci offre lo splendore della quotidianità.
Ci vuole tempo e forse un po’ di solitudine per cogliere la qualità di un paesaggio “senza qualità”.
Nella campagna punteggiata dalle grandi cascine i soli elementi che emergono sulla linea d’orizzonte sono gli argini, i campanili, gli alberi, in piccole macchie o isolati, più spesso disposti in filari, a segnalare una continuità spesso interrotta da interventi sempre più frequenti di omogeneizzazione del territorio agricolo.
Quando li guardiamo andando per capezzagne o viaggiando su queste strade diritte, gli alberi sono lì, più irraggiungibili della cima di una montagna e pure vicini a noi, quasi a nostra misura. Non ci è dato dominarli, non ci è dato utilizzarli così come sono. Li possiamo guardare o abbattere. Oggi, nell’imperante integralismo della “utilitas” produttiva, il taglio di un albero sembra gesto emblematico che solleva il nostro spirito, dedito alla rapina, dal disagio insopportabile della contemplazione.
Gli alberi, dunque. Elementi emergenti di un territorio che ci offre ancora l’opportunità di esprimerci come specie vivente relazionata intimamente ad un sostrato biologico e culturale da cui per innumerevoli segni si costituisce l’emergenza visuale che chiamiamo paesaggio.
Sono per l’appunto i segni di un paesaggio particolare che si esprime nella esile linearità dei filari, nel percorso dei tratturi e nelle modeste discontinuità altimetriche degli argini e dei fossi; segni residui in progressiva cancellazione nel prepotente affermarsi dell’agricoltura intensiva. Segni che ci consentono di accostarci alla irripetibile fisicità di elementi di un paesaggio disegnato dalla una vicenda storica di un lavoro secolare.
Segni che nella coesistenza di elementi di natura e diffuse testimonianze della nostra storia ci ripropongono un equilibrio biologico fondamentale nella riappropriazione di una identità attraverso la presentificazione del nostro passato.
Ricordiamoci insomma che il valore di un paesaggio, tanto più se si tratta di un paesaggio “senza qualità”, vale a dire privo di scenografie emergenti, si sottolinea e si difende mantenendone la continuità. Del resto si tratta di un paesaggio che per esprimere la sua qualità estetica deve essere sostanziato da un’alta qualità delle acque e del suolo. Un paesaggio “scomodo” insomma. E perciò si tende a non qualificarlo come tale, ma come pura materia disponibile ad ogni trasformazione produttiva.
Ecco quindi che la sottolineatura di ogni segno naturalistico, mentre disturba l’invadenza distruttiva e totalizzante dell’agricoltura meccanizzata delle monoculture, qui assume l’importante significato di definizione di un segno storico e di un presidio ambientale.
Sia dunque riaffermato il nostro diritto a contemplare la serenante coesistenza di artificio e natura, dove l’eccezionalità del bello non è confinata nella alienante lontananza di un escursionistico altrove, ma è invece richiamata discretamente e interiorizzata nella consapevole continuità del fare e del pensare, nella rasserenante presenza di una natura cui sentiamo di appartenere, perché conserva la visione di una storia familiare.
(Da una nota a margine della giornata di studio sulle cascine. Cremona, 23 marzo 2001.)
Giacomo Graziani vive a Milano. Architetto e urbanista, dalle radici romagnole ha tratto un radicato amore per il paesaggio della pianura e per la cultura contadina. Una sensibilità che si è rinnovata durante una lunga permanenza per motivi di lavoro nel territorio di Cremona.
Qui ha fondato nel 2009 il Centro della Poesia Cremonese con il sostegno della «Fondazione Mara Soldi Maretti» e del Comune di Grumello, dove ha organizzato eventi culturali che hanno coinvolto diversi gruppi letterali attivi sul territorio con la presenza di autori affermati e di giovani poeti.
Sue poesie sono apparse sulle riviste «Il Monte Analogo» e «de-Comporre». L’omonima Casa Editrice ha pubblicato alcuni suoi testi sulla raccolta antologica La Memoria e l’Attesa – poesia a Grumello. Nel 2014 è stata pubblicata la silloge “Il fulmine e la tortora” (La Vita Felice editore).
Ho avuto solo contatti fugaci con la “grande pianura” lungo il corso del Po, albe assonnate dai finestrini delle corriere delle gite scolastiche, o da quello rapace di un treno, in un giorno triste di santo Stefano, dove la galaverna sui rami sembrava gelare i miei stessi pensieri. Ne ho sempre tratto un senso di grande malinconia, radicalmente ancorata ai versanti delle mie colline marchigiane, che si spostano a ogni curva della strada come quinte di un sipario, e tra le pieghe si intravvede il mare. Ma c’era anche una una inspiegabile nostalgia, come se mancasse alla mia esperienza una parte fondamentale, come fosse una menomazione il non poter sperimentare la vita in quei territori, la nebbia che isola ma anche protegge, la solitudine delle cascine, la geometria dei filari dei pioppi, unico limite all’orizzonte. Mi chiedo spesso come sia il quotidiano di amici che vivono lassù, se il loro umore possa essere influenzato dal clima o dal paesaggio, visto che il mio modo di essere dipende tanto dall’evento del tutto casuale di essere nata in questo luogo. Questa pagina mi restituisce una parte di ciò che sentivo senza saper spiegare: ve ne sono molto grata.