(La recensione risale al 1967, dopo la pubblicazione dei libri di Groddeck presso il Limes Verlag; era destinata alla rivista Der Spiegel)
Nel 1933 il direttore di una clinica di Baden-Baden, il medico e massaggiatore Georg Groddeck, scrisse una lettera al nuovo cancel- liere del Reich (Hitler, n.d.t.), nel tentativo di fermare i fatti inauditi che osservava (rimane un mistero come lui riuscisse a vederli, visto che tanti milioni di persone non riuscivano a farlo). Qualche tempo dopo alcuni amici lo avvertirono che la lettera era probabilmente arrivata al destinatario e alla Gestapo e lo convinsero a fuggire. Morì in Svizzera nel 1934. I suoi libri bruciarono nei roghi in Ger- mania e solo oggi vengono di nuovo pubblicati presso la casa editrice Limes, che non ringrazierò mai abbastanza; colgo anzi l’occasione per richiedere espressamente di completarne l’edizione.
Nel frattempo le opere complete di Groddeck sono state stampate in Inghilterra e, se le mie informazioni sono corrette, hanno in- fluenzato alcuni scrittori, oltre alla generazione di Henry Miller, W.H. Auden e poi Lawrence Durrell, che ha scritto un saggio per l’edizione tedesca.
Il nome di Durrell avrebbe forse potuto aiutare a riportare alla luce quello di Groddeck ma sembra che così non sia avvenuto, perché anche un paio di recensioni non dimostrano che i libri vi- vono, che un autore è riemerso dalla memoria.
È molto difficile scrivere una critica intelligente su una personalità così complessa: uno scrittore brillante, che può essere letto anche da chi ha frequentato solo un paio di classi della scuola elementare. La sua prosa è spiritosa, semplice, straordinaria; ci sono passi in cui non ci si deve sentire arteriosclerotici, perché improvvisamente si legge, non a causa della malattia, un dialogo ininterrotto tra medico e paziente o ex paziente o futuro paziente. Malati infatti lo siamo stati tutti, lo siamo e lo saremo. Leggendo veniamo a co- noscere ciò che non riusciremmo a sentire in alcun colloquio me- dico. È un interlocutore molto interessante, spietato, tenero; le testimonianze che ci porta dei suoi ex pazienti sono particolari. Groddeck, che continuava a praticare massaggi e psicoanalisi, in- dipendentemente dalla scoperta di Freud e dalla sua ammirazione sconfinata per il medico di Vienna, il genio… Probabilmente non aveva mai pensato di essere lui stesso un genio. Oggi lo si consi- dererebbe uno dei padri della psicosomatica o forse il precursore più significativo. Anche così non si è detto abbastanza. A tutti dovrebbe essere prescritto il Libro dell’Es oltre alle gocce per la tosse e alle iniezioni. Ma quando si sente parlare di «lettura ob- bligatoria» ci si immagina qualcosa di noioso e una cosa Groddeck non è mai: noioso, dottrinario. Non perde mai il filo del discorso, sia che parli di un quadro di Leonardo, che racconti una storia o che, nei panni di Patrik Troll, scriva le lettere all’amica, contenute nel Libro dell’Es, che sarà uno dei classici di questo secolo.
Il pensiero di Groddeck non è stato ripreso, neppure dalla medicina psicosomatica che, spesso attaccata per la sua stessa definizione, ha percorso comunque molta strada. In questo suo pensiero fondante infatti non c’è progresso fatto dalla medicina che possa superarlo. Quelle poche follie contenute nei suoi libri, che non si riesce pro- prio a sopportare, sono solo quel minimo disagio che si avverte nei confronti di un grande che non è perfetto. E Groddeck non solo non voleva essere perfetto, ma per tutto ciò che ha scritto ha sempre prestato il fianco ad una critica di ‘incompletezza’ (sic!); di sé stesso, degli uomini, degli scrittori, su alcuni dei quali ha dato interpretazioni magnifiche, come Goethe o Ibsen, irriverente perché impavido e mai senza profondo rispetto. Le lettere all’amica sono di sicuro la cosa più bella.
Sorprende sempre, è convincente, non abbandona nessuno, la bugia per lui è un dato di fatto come la vita e non importa se al medico si dica o meno la verità. Forse i santi in questo secolo hanno dovuto portare avanti questa lingua, quella del clown e dello scienziato. Groddeck probabilmente avrebbe preferito parlare con gli uccelli e con i pesci, ma non gli è rimasto altro da fare che sprecare la sua amenità e saggezza con questa strana e terribile specie umana, con cui si è dichiarato d’accordo e che ha tenuto a disposizione come oggetto di ricerca per non essere l’ultimo bensì il primo tra i suoi malati.
Egli considerava il suo camice come una farsa e così pure l’Io dei malati. Tra i due smascheramenti gli è riuscito il primo, lo sguardo rivoluzionario, infantile, ingenuo, rivolto ai fenomeni che esistono da sempre. Era un sognatore, un grande bambino, un meraviglioso bugiardo, incantato dai suoi pazienti meravigliosamente bugiardi e solo lui era l’imperatore Groddeck, come lo era Peer Gynt, in cui ha scoperto sé stesso, non solo in un pezzo di Ibsen, bensì anche in uno da lui stesso scritto e che merita altrettanto di essere letto. E in ogni momento egli ha detto la verità, come solo i bu- giardi sanno fare.
Chi, dunque, non prescriverà questi libri nella ricetta? E chi non li prescriverà a se stesso?
Non necessariamente un medico deve saper scrivere meglio perché sa pensare meglio della maggioranza delle persone, ma in questo caso si ha sicuramente una coincidenza di scrittura, ricerca e studio in un’accezione antica che con lui si è rinnovata.
Perché, mentre tutto funziona con i satelliti e tutto procede – qui non si procede molto ed è risaputo che l’uomo è un essere oscuro. Noi rimaniamo ‘inesplorati’. Es, direbbe Groddeck. Gli sia con- sentito di intenderlo a modo suo; l’ha capito bene.
Nessuno sa ancora che cosa sono le psicosi e cos’è il raffreddore. In un’epoca così medioevale è piacevole occuparsi di uno dei primi illuministi. Senza rendersene granché conto si viene coinvolti, perché è chiaro che non si sa niente e prima o poi si è costretti a riflettervi sopra.
Qualcuno ha scritto: Groddeck aveva dei pazienti a lui congeniali. Anche oggi dovrebbero esserci medici che hanno pazienti a loro congeniali, perché non si può guarire nessuno, si può solo procedere insieme. Insieme comunque perché non ci sono da una parte il medico e dall’altra il paziente, il sofferente, ma c’è solo quest’astrusa simbiosi della quale Freud e guarda caso Groddeck hanno già detto abbastanza.
Su questo punto erano d’accordo. Ciò non è più immaginabile in una medicina burocratizzata; vi possono essere solo casi fortunati che possono segnare la strada. La rivoluzione ha sbranato un’altra volta i suoi figli. Nel momento in cui si è iniziato a comprendere per la prima volta qualcosa, dopo secoli di superstizione e oscurità, quindi di mancanza di scientificità, anche questa scienza che riguarda tutti noi è condannata a capitolare tra ticket sanitari, conti, visite di dieci minuti. Eppure oggi si sa, si sa qualcosa di più. Anche il dottor x, che si stanca di misurare la pressione del sangue e la frequenza cardiaca e sa che la medicina è qualcos’altro, ma non ha il tempo sufficiente e non è una critica, perché deve dedicarsi al prossimo infarto cardiaco. E ha guadagnato 5 marchi, se fa strada.
E nessun cerusico di paese è così stupido da non sapere cosa significa essere malati.
I bravi medici, d’altro canto, l’hanno sempre saputo e non sempre si trattava di specialisti; molto spesso erano medici modesti, che conoscevano i loro pazienti e non sapevano neppure pronunciare la parola psicoanalisi. Eppure lo sapevano.
La medicina, al pari di alcune altre scienze, ha superato i suoi primi secoli grandiosi. Ciò nonostante, essa si trova ancora all’ini- zio. Come il presocialismo, il precristianesimo, tutto ciò che inizia con «pre». Per necessità ci si può tenere lontani da molte scienze. Non si capisce neppure, non si vuol capire, per autodifesa. Anche i medici, quegli infelici, per autodifesa.
Groddeck non aveva a che fare con «nevrosi», che Freud ha selezionato e classificato, creando la teoria delle nevrosi e la relativa analisi […]; egli era un medico normale, aveva a che fare con malattie del tutto comuni, con tisici e cardiopatici, con reumatismi e articolazioni del ginocchio, con fratture e arteriosclerosi, con reni e intestino. Egli ha appreso il mestiere dal grande Schweninger, il medico personale di Bismarck, e si presume che per quell’epoca abbia imparato tanto.
Ciò che sicuramente non poteva imparare era chiedersi perché i suoi pazienti erano malati e che cosa è la malattia. Perché uno ha il raffreddore, un altro la sifilide, piuttosto che problemi di stomaco. Che cosa significa ciò, che cosa esprime quello. E quando si sa che cosa significa, come si cura. E quale ruolo gioca il malato. La prima e più acuta supposizione di Groddeck si è rivelata giusta: non esiste malattia che non sia prodotta dal malato, neppure una frattura, un calcolo renale. È una creazione come lo è un’opera d’arte; la malattia ha un significato.
Ci vuole dire qualcosa, lo dice in un modo particolare con cui compare, procede e scompare o porta alla morte. Dice ciò che il malato non capisce, pur essendo la sua espressione più personale e, se necessario, lo si può portare a riconoscere ciò che egli vuole esprimere con la malattia (Groddeck non riteneva sempre necessario analizzarla, oppure pensava che lo si dovesse fare solo per breve tempo, talvolta invece più a lungo). Questo però sembra difficile per un malato, perché come fa a sapere come gli viene l’influenza, è noto che esistono i microbi. Per Groddeck questo è un nonsenso. Non esiste alcuna causa esterna alla malattia. Per lui anche un’infezione non è altro che una ricerca di espressione dell’Es, perché egli, come risaputo, ha coniato tale termine e Freud l’ha ripreso da lui e l’ha utilizzato in modo diverso (un capitolo a sé).
Questo Es, l’inconscio, qualcosa di misterioso solo perché tale è la vita, tale è la natura, perché Groddeck, che a torto da Durrell è stato definito un metafisico o filosofo, rifiuterebbe un altro mistero; lui, che pensa in modo così chiaro e riesce a spiegare a un bambino in modo comprensibile le cose più difficili, non ha bisogno di misteri – afferma solo qualcosa di cui non sa niente di cui solo lui conosce le conseguenze – per lui l’Es è solo una parola d’ausilio, non è una cosa in sé, deve solo indicare che c’è qualcosa di forte, di molto più forte dell’Io, perché l’Io non può intervenire intenzionalmente nella respirazione, nella digestione, nella circolazione del sangue, l’Io è una maschera, la superbia con la quale tutti noi andiamo in giro, mentre veniamo guidati dall’Es, è l’Es che fa ciò e attraverso la malattia parla usando simboli. Ecco un’altra parola pericolosa. Non per Groddeck. Il simbolo e la cosa sono un tutt’uno. Una frattura della gamba non è il simbolo di qualcosa, bensì ciò che viene detto e il malato può anche dire molto spesso, spontaneamente, perché si è rotto questa gamba.
I metodi di Groddeck ancora dieci anni fa devono essere sembrati ridicoli, oggi penso si sappia rivalutarne alcuni.
Groddeck, ossessionato dall’aiutare, deve essere stato un medico molto rude. Rude con una riserva. Sapeva perché lo era. Ai pazienti candidati alla morte non diceva di stare sdraiati a letto per farli continuare a languire per giorni, bensì li faceva uscire e passeggiare al sole fino all’ultimo secondo; egli aveva un rispetto troppo grande
per la vita e gli altri pazienti, quelli candidati alla vita, spesso li trattava usando modi estremamente rudi; uno dei suoi pazienti più famosi e suo ammiratore, il conte Keyserling, scrive al riguardo: «curava con una combinazione di psicoanalisi e massaggi, in cui il procurare dolore aveva un ruolo da non sottovalutare: dal movi- mento di difesa davanti al dolore, cresceva nel suo paziente la vo- lontà di guarigione, perché da lui andavano solo coloro che erano a lui congeniali e nello stesso tempo, nel momento di dolore acuto, a lui ogni volta spettava essere utile per la cura, esortato con domande chiave…»
Tale apparente rudezza è dovuta alla sua enorme intuizione. Se si sa che cosa rende malato un malato, lo si può aiutare, in un modo o nell’altro. Per tutta la vita Groddeck è ricorso ai massaggi come suo metodo, non perché vi credesse, infatti egli considerava giusto qualsiasi metodo. E considerava giusta l’analisi, alla quale era ar- rivato da solo, indipendentemente da Freud, pur rifacendosi poi a lui più volte.
Ciò che avevano in comune era meno di quanto sembrasse; era molto più la medicina a necessitare di grandi impulsi e ad aver bisogno di questi geni.
Quando si sono passati alcuni mesi con un autore, si è litigato spesso con lui, ci si è legati in un rapporto di amicizia, è difficile trovare una conclusione sensata. Questa critica non è una critica. La critica ci sarà, è necessaria. È un’indicazione, un’esortazione, un desiderio di condividere con altri un autore che avremmo preferito te- nere per noi, gelosamente, perché ci si deve liberare dalla gelosia.
Traduzione italiana di Donatella Colombo e Giancarlo Stoccoro da: Ingeborg Bachmann, Entwurf einer Kritik über Groddeck, in: Georg Groddeck, Doku- mente un Schriften, Herausgegeben von Otto Jägersberg im Elster Verlag Moos GmbH, 1984, pp. 86-91.
(in: Pierino Porcospino e l’analista selvaggio, a cura di Giancarlo Stoccoro, ADV publishing house, 2015)