É poesia conclusa, non lascia al lettore parole in ombra.
Si avverte che l’autore è acuto osservatore e la sua scrittura è attenta, anche quando si dilunga per timore di lasciare dietro qualcosa. A volte pesca dalla riva ma teme di tuffarsi lasciando che pochi versi affiorino a galla.
Trova l’inconscio senza arrivare a un corpo a corpo. Sa bene che la forza dell’Es sovverte ogni precauzione, ogni avvertenza ma salva l’imperfezione perché lo tiene in vita.
Viale Rembrandt
Ai marciapiedi di viale Rembrandt
non importa il fiorire dei sambuchi
ignorati, come ignorata è l’acqua delle rogge
di cui sembrano non avere sete.
Intuiscono la primavera
dalla prima luce scivolata
sulle facciate dei palazzi, precipitata
nei riflessi reticenti delle vetrine?
Una luce che indica le cosce delle donne
sotto le gonne corte colorate,
le merci esposte nelle cassette
davanti ai negozi di frutta e verdura
dove i gestori rovesciano secchi d’acqua
sacramentando contro i maleducati
e i loro cani.
In quanti modi può esprimersi Maggio
e rimanere inascoltato?
Sono in grado i marciapiedi
di notare una qualche differenza?
Il fischio di un qualche uccello tornato
da chissà quale odissea?
Il risultato della somma dei fruscii
delle biciclette sull’asfalto?
I marciapiedi di viale Rembrandt
non conoscono la sotterranea pazienza del seme,
il suo desiderio di acque,
l’ostinata ambizione di fronde e di frutti.
Conoscono le geometrie dei cordoli,
dei davanzali da cui si affacciano i vecchi.
Conoscono il rumore dei tacchi
che non lasciano impronte.
Conoscono i coni di luce proiettati nella notte,
complici di abbracci e agguati.
Conoscono l’allegria di un bambino
che attraversa l’incrocio,
tra le braccia la scatola di cartone
con le scarpe da calcio comprate da papà
per il prossimo torneo di primavera.
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